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QUELLE NAUFRAGHE D’AFRICA COSTRETTE A BUTTARE IN MARE NOVE FIGLI


MARINA CORRADI

Sul barcone partito dalle coste del Nord Africa si erano stretti in 48. Do­po cinque giorni in mare sotto al sole ardente di luglio sono approdati sulle coste spagnole dell’Andalusia in 33. Quindici, tra cui nove bambini piccoli, sono morti di caldo e di sete e di sten­ti. Giornalisticamente parlando, ordi­naria amministrazione: poche righe nelle pagine interne dei quotidiani, non vale di più una tragedia, se si ripete in­variata cento volte all’anno, e riguarda, per di più, dei miserabili. Ma c’è un par­ticolare in quelle righe in cui si inciam­pa, fermandosi in un attimo di atterri­to silenzio interiore. Le madri di quei bambini, riferiscono i superstiti, sono state costrette a buttare esse stesse i lo­ro figli morti nel mare. Sotto il cielo tor­rido tra l’Africa e la Spagna, in una bar­ca affollata di uomini stremati non c’è spazio per alcuna pietà. Un cadavere, e anche quello di un bambino, in quel so­le appesta i compagni con l’intollerabile fetore della morte. Disfarsene bisogna, e in fretta, liberarsene scaricando a ma­re le piccole membra illividite.
Immaginiamoci allora – facciamo uno sforzo per vedere ciò che nessuna tele­camera ci mostrerà mai – quelle madri naufraghe, attorno solo l’orizzonte in­finito del mare, e quei figli di uno, due, quattro anni fra le braccia, di cui per o­re hanno assistito impotenti all’agonia. Immaginiamoci l’istante in cui il respi­ro affannoso del figlio si quieta, e forse il materno sollievo nel pensare che il martirio è finito, e che il bambino ora è in pace. Chiudergli gli occhi, ricom­porlo nelle vesti sporche, nelle piccole braccia ustionate dal sole. Forse per qualche ora i compagni avranno ri­spettato il muto dialogo fra madre e fi­glio, avvinti l’una all’altro come nell’il­lusione di un lungo sonno. Ma poi cer­to il capobarca avrà fatto segno: «È o­ra ». Le madri dapprima si saranno di­speratamente ribellate. Urla, pianti, le braccia protese ad avvinghiare il bam­bino inerte. Ma poi hanno ceduto, ras­segnate. Altri figli le guardavano zitti, e la sopravvivenza imponeva la sua leg­ge feroce. Ma han voluto essere loro a prenderli in braccio, dolcemente, a adagiarli sul­l’acqua come su una culla, allungando la mano in un’ultima carezza. A cosa somiglia questa tragedia ignorata in al­to mare, che cosa ti ricorda, tanto che ti sembra di averne già letto? «Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben acco­modata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per u­na festa promessa da tanto tempo, e da­ta per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fos­se stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da u­na parte, con una certa inanimata gra­vezza, e il capo posava sull’omero del­la madre, con un abbandono più forte del sonno». La madre di Cecilia nella peste manzoniana, è lei la donna cui la memoria, in quelle poche righe di­stratte in un dispaccio di agenzia, ri­torna. La madre che posa come un fio­re reciso sul carro dei morti la figlia, do­veva avere la stessa faccia, gli stessi oc­chi di quelle sconosciute africane in mezzo al mare. E al monatto che come intimidito si avvicina a prendere la bambina la donna dice: «No! Non me la toccate per ora. Devo metterla io su quel carro». «Devo metterla io»: così co­me le naufraghe hanno voluto deporre esse stesse i bambini nel mare – quasi fossero le onde lenzuola da tenera­mente rimboccare. La peste, c’è ancora. È lo strazio dei morti di fame naufraghi nei nostri ma­ri. Ancora le donne cedono alla morte i loro figli inutilmente vegliati nelle not­ti di deriva. Noi, non le vediamo. Nes­suna televisione ce ne mostrerà gli oc­chi neri mentre si chinano sull’acqua col figlio in braccio, irrigidito «in un ab­bandono più forte del sonno».

da: edicola.avvenire.it/ee/avvenire/default.php?pSetup=avvenire&curDate=20080712&...


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